L’attività di pianificazione nell’area torinese

Per comprendere il disegno sottinteso alle numerose opere di trasformazione e fornire una visione di insieme è necessario partire da quello che è tuttora il principale strumento urbanistico, il Piano regolatore generale (PRG). Per quanto riguarda Torino città, la storia dell’attuale PRG si è aperta con la Delibera Programmatica del 1989 e si è conclusa con l’approvazione nel 1995(sostituendo così il vecchio PRG del 1959).
Per la verità, nel 1980 era già stato approvato un altro progetto preliminare di Piano regolatore, tuttavia mai giunto al termine del suo iter. Promosso dall’amministrazione comunale quando era sindaco Diego Novelli, e rispecchiando la visione anticipatoria e sinottica di quegli anni (con un insieme di piani sovraordinati e coordinati), il progetto conteneva indirizzi generali di riorganizzazione della città e interventi di decongestionamento dell’area metropolitana, di riequilibrio centro-periferia, di sostegno all’espansione urbana verso ovest.
Tuttavia, a seguito di tensioni interne alla maggioranza e per le resistenze di operatori economici e immobiliari, questo progetto preliminare non diventa definitivo; anzi, dopo il 1985, cresce in modo evidente il partito “anti-Piano”, che mette in discussione l’idea in sé di dotarsi di strumenti regolativi e pianificatori (ritenuti rigidi, burocratici, di appesantimento del mercato). Si apre quindi l’era dell’urbanistica cosiddetta “debole”, “per progetti” (piuttosto che “per piani”): i grandi interventi di trasformazione – come quelli sulle aree industriali dismesse – diventano la nuova frontiera su cui sperimentare il tentativo di conciliare rigenerazione economica, riqualificazione urbana, richieste del mercato, flessibilità ed efficienza, esigenze di cambiamento.
Spesso, però, gli esiti di questi interventi si rivelano decisamente inferiori alle attese: proprio la mancanza di politiche generali e di un quadro strategico complessivo determina una complessiva incertezza (oltre ad una pericolosa discrezionalità amministrativa), che finisce per rallentare e complicare i processi decisionali, invece di snellirli (Mazza, 1990; Falco, 1990); le stesse trasformazioni realizzate con progetti “caso per caso” (come il Lingotto, il Palagiustizia, l’area ex Venchi Unica), risultano spesso poco coerenti con il sistema di relazioni urbane in cui vengono inserite.
Alla fine degli anni ’80, riprendono le consultazioni per la formazione di un nuovo PRG, che produrranno l’incarico per un nuovo progetto preliminare allo studio milanese Gregotti Associati. Obiettivo dei nuovi progettisti diventa quello di riportare la contrapposizione tra piano e progetto all’interno della politica, nella convinzione che una concertazione tra le molteplici componenti sociali sia la sola via corretta per definire indirizzi, prospettive e principi regolatori delle trasformazioni urbane. Nel caso di Torino, in particolare, non si ritiene praticabile un modello rigido, ma piuttosto l’individuazione di politiche urbanistiche e linee guida, che permettano poi il raccordo tra interessi privati e obiettivi pubblici. L’idea guida del nuovo PRG è, insomma, quella di evitare i percorsi obbligati (che limitano la progettualità), preferendo fissare quadri di riferimento coerenti e integrati, all’interno dei quali produrre le azioni concrete dei diversi soggetti.
Il progetto preliminare dello studio Gregotti viene approvato nel 1991, in una stagione in cui – anche a livello nazionale – acquista nuovo respiro una visione della pianificazione, come “processo dinamico e interattivo di un sistema complesso di piani e atti di governo”, flessibili e interagenti, che consentano disegni strategici e lungimiranti, in grado di regolare ma anche di prevedere e disegnare lo sviluppo di un’area urbana e metropolitana (Gambino, 1993). Il progetto preliminare torinese, in particolare, si fonda sulla presa d’atto dell’evoluzione in senso post-industriale del sistema economico locale, tra terziarizzazione crescente, ristrutturazione industriale, emergere di nuovi settori produttivi. Il piano viene perciò concepito come schema regolatore di un processo di mutamento socioeconomico composito, puntando, in particolare, a valorizzare i “vuoti urbani” (creati dalla dismissione degli impianti industriali) attraverso un mix di investimenti pubblici e privati, facendo anche i conti con alcune pesanti “eredità” del passato fordista, come la diffusa emarginazione sociale in alcune aree degradate del centro e della periferia.
Per quanto riguarda il rapporto tra Torino e l’area metropolitana, la nuova stagione del ritorno alla pianificazione non riesce a rispondere positivamente alle esigenze di integrazione delle aree metropolitane (espresse anche dalla legge 142 del 1990): lo stesso neonato PRG torinese viene da più parti criticato per la sua scarsa considerazione dell’area metropolitana, limitandosi a ragionare entro gli stretti limiti amministrativi del capoluogo (mentre lo stesso progetto preliminare del 1980 si poneva il problema del piano alla scala metropolitana).
Inoltre, sebbene la legge urbanistica regionale 56 del 1977 avesse obbligato tutti i comuni a dotarsi di un Piano regolatore (per superare la frammentazione e le contraddizioni prodotte dalla semplice somma dei vari regolamenti edilizi comunali), il processo di formazione dei nuovi PRG risulta quanto mai lento: occorrono più di vent’anni perché tutti i comuni piemontesi producano un Piano regolatore, e proprio alcuni dei grandi centri dell’area metropolitana arrivano tra gli ultimi. In più, le differenti velocità di approvazione rendono più complicato integrare strumenti urbanistici pensati e approvati in epoche tra loro a volte molto distanti: alcuni comuni, ad esempio, sono oggi dotati di Piani regolatori risalenti ai primi anni ’80, mentre altri hanno Piani decisamente più recenti, nati secondo rinnovate metodologie (conoscitive, di rappresentazione del territorio, normative), oltre che, in genere, maggiormente basati sul criterio di contenere la capacità insediativa.
Nell’area metropolitana, l’adeguamento alla legge urbanistica regionale si realizza sostanzialmente “a due velocità”: la prima generazione di PRG È “a tutto campo”, centrata sui servizi, sulle previsioni localizzative, sull’offerta di edilizia economico-popolare, sulla tutela delle aree non compromesse, ma priva di strategie territoriali condivise a scala metropolitana (Istituto Nazionale di Urbanistica, Regione Piemonte, 2003); i piani più recenti, soprattutto nei centri maggiori, presentano caratteri innovativi, che incorporano nel processo di pianificazione le necessità operative (nella consapevolezza della difficoltà di gestire le trasformazioni urbane basandosi solo sul controllo dell’uso del suolo).
Questa nuova generazione di Piani, ad esempio, al posto degli espropri, prevede meccanismi perequativi, con la cessione di diritti edificatori privati nelle aree di trasformazione, in cambio di quote consistenti di aree a verde e servizi. Inoltre prevale un orientamento concertativo (che ormai si amplia ad altri tipi di piani e programmi, specie complessi), finalizzato ad associare soggetti economici e sociali (sia a livello “orizzontale” sia “verticale”) attorno alla definizione e alla realizzazione di percorsi di sviluppo comuni, anche superando i tradizionali limiti amministrativi comunali (per forme di coordinamento ad una scala superiore).









  

Gli strumenti urbanistici e di pianificazione citati in questo capitolo

PIANO REGOLATORE GENERALE (PRG)
Previsto dalla legge urbanistica 1150/1942, è esteso a tutto il territorio comunale, ha validità a tempo indeterminato, è lo strumento principale di pianificazione urbanistica.

PIANO PARTICOLAREGGIATO (PP)
Piano attuativo del PRG, previsto dalla legge 1150/1942; precisa l’assetto definitivo delle zone attraverso limiti e vincoli di trasformazione urbanistica.

PIANO DI ZONA PER L’EDILIZIA ECONOMICO-POPOLARE (PEEP)
Piano attuativo del PRG, previsto dalla legge 167/1962; regola gli insediamenti destinati ad alloggi popolari; è obbligatorio per i comuni capoluogo di provincia o con popolazione superiore a 50.000 abitanti.

PIANO PER GLI INSEDIAMENTI PRODUTTIVI (PIP)
Piano attuativo del PRG, previsto dalla legge 865/1971; regola l’ubicazione degli impianti industriali, artigianali, commerciali, turistici (e le connesse opere di urbanizzazione).

PIANO ESECUTIVO CONVENZIONATO (PEC)
Il PRG, nelle porzioni di territorio non ancora completamente dotate di opere di urbanizzazione, può consentire ai proprietari (singoli o consorziati) la presentazione al Comune di PEC (comprensivi di schema di convenzione col Comune), che devono rispettare quanto fissato dai Programmi di attuazione.

PROGRAMMI INTEGRATI (ex art. 18)
Sono stati i primi programmi complessi, entrati nella strumentazione urbanistica sulla base della legge 203/1991, finalizzata alla costruzione di nuove abitazioni per le forze dell’ordine. Il loro carattere episodico e settoriale li ha, in qualche modo, tenuti a latere del processo di innovazione degli strumenti urbanistici (come una sorta di sperimentazione per successivi programmi).

PROGRAMMI INTEGRATI DI INTERVENTO (PRIN)
Introdotti dall’articolo 16 della legge 179/1992 (per interventi di edilizia residenziale pubblica); il rinvio della loro attuazione ad una nuova legislazione regionale (a seguito della sentenza n.393/92 della Corte Costituzionale) – approvata solo da alcune regioni e alla fine degli anni ’90 – ha caratterizzato a lungo questi programmi complessi per la loro condizione di straordinarietà.

PROGRAMMI DI RECUPERO URBANO (PRU)
Protagonisti della stagione di diffusione dei programmi complessi, i PRU sono centrati sul recupero dei tessuti residenziali in quartieri di edilizia pubblica; gli indirizzi localizzativi, per tipologie di intervento e procedure di formazione derivano da un atto centrale (DM 1071 e 1072 del 1994), anche se integrati da leggi regionali.

PROGRAMMI DI RIQUALIFICAZIONE URBANA (PRIU)
Promossi con il decreto del 21/12/94, coprono una vasta casistica di tipologie insediative: ambiti di centro storico, aree industriali dismesse, periferie, quartieri di edilizia residenziale pubblica; i connotati più innovativi sono quelli del partenariato, della valutazione urbanistica ed economica, dei contenuti strategici.

PROGRAMMI URBAN
Nati nel 1994 su iniziativa dell’Unione Europea, sono rivolti direttamente ai comuni (finanziati con contributi provenienti da fondi strutturali); il loro fine è la riqualificazione economica e sociale della città e, soprattutto, dei “quartieri in crisi”, attraverso processi di crescita endogena.

PATTI TERRITORIALI (PT)
Strumento di programmazione negoziata, introdotto dalla legge 662/1996 e quindi regolamentato dalla delibera Cipe del 8/5/1997; si tratta tra pubblici e privati per interventi finalizzati allo sviluppo di arre depresse, in particolare tramite interventi produttivi ed infrastrutturali integrati. I promotori possono enti locali o altri soggetti pubblici, categorie o altri soggetti privati; i sottoscrittori possono costituire società miste o partecipate, in funzione di coordinamento, cui segue l’apertura di un tavolo di concertazione.

CONTRATTI DI QUARTIERE (CDQ)
Promossi dal Ministero dei Lavori pubblici con il DM del 22/10/1997, arricchiscono l’esperienza dei programmi complessi con nuovi temi, tra cui: partecipazione, coesione sociale, bioarchitettura; negli anni, hanno assunto una connotazione locale, ma anche meno agganciata (rispetto ad altri strumenti) ai contenuti strategici delle politiche urbane.

PROGRAMMI DI RIQUALIFICAZIONE URBANA E SVILUPPO SOSTENIBILE DEL TERRITORIO (PRUSST)
Introdotti dal DM 1169 dell’8/10/1998, hanno per obiettivo la costruzione di un insieme di azioni – a scala vasta e locale – per l’infrastrutturazione del territorio, per la creazione di occasioni di sviluppo sostenibile (economico, ambientale e sociale), per insediamenti produttivi, attività turistico-ricettive, di riqualificazione di porzioni urbane degradate; tra gli ambiti di programma sono compresi anche quelli metropolitani, relativi ai distretti insediativi, alle attrezzature a rete e puntuali.





 

Il ruolo della Provincia e della Regione: i piani territoriali di coordinamento

Dopo l’entrata in vigore della legge 142 del 1990, la Regione Piemonte ha ritenuto necessario adeguare la legge urbanistica regionale alle nuove disposizioni, emanando una legge regionale (la numero 45 del 1994) che istituisce i Piani territoriali: regionale, provinciale e metropolitano.
Nel 1997, la Regione si dota quindi di un Piano territoriale regionale (PTR), che individua e norma i caratteri socio-economici e territoriali e paesistici del territorio e definisce gli indirizzi di governo per la trasformazione del sistema regionale.
Il PTR si attua attraverso gli strumenti di pianificazione territoriale e di programmazione previsti dalla normativa nazionale e regionale: i PTC delle province, i Piani territoriali operativi, l’adeguamento dei Piani regolatori comunali o l’emanazione di specifiche direttive del Consiglio regionale. Il PTR prevede inoltre una serie di approfondimenti che interessano porzioni ridotte di territorio: finora, sono stati predisposti quelli relativi alla Val Susa e all’asta del Po, mentre sono in corso studi per il piano paesistico della collina torinese. L’approfondimento per l’area metropolitana torinese, sebbene previsto, non è invece stato ancora realizzato (fonte: www.regione.piemonte.it/sit), a testimonianza del fatto che, nonostante la sua centralità socioeconomica, l’area metropolitana ancora non risulta non è prioritaria nell’agenda della pianificazione regionale.
La Provincia, ferme restando le competenze dei comuni e le linee dettate dai programmi regionali, deve determinare gli indirizzi generali di assetto del territorio, indicando le destinazioni in relazione alla vocazione delle sue parti, la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture e delle linee di comunicazione, le linee di intervento per la sistemazione idrica e idrogeologica, le aree da destinare a parco o riserva ambientale.
Il Piano territoriale di cocoridnamento provincia (PTC), previsto dalla legge urbanistica 1150/1942, ha lo scopo di coordinare l’attività urbanistica di determinati ambiti territoriali. I comuni compresi nel PTC sono tenuti ad uniformare i propri strumenti urbanistici ai suoi contenuti, promuovendo la cooperazione con (e tra) comuni e comunità montane, mediante protocolli di intesa tra gli enti locali delle singole aree.
Il PTC torinese, adottato dalla Provincia nel 1999 e approvato dal Consiglio regionale il 1° agosto 2003, è stato costruito sulla base delle indicazioni dei piani regolatori comunali (e attraverso la loro cosiddetta “mosaicatura”), della raccolta ed analisi di dati e del confronto con le amministrazioni locali. Gli obiettivi del piano sono:
- ridurre il consumo di suolo;
- contenere la dispersione dell’urbanizzato, la diffusione urbana e la frammentazione del territorio;
- individuare un sistema continuo di aree verdi, anche nelle zone periurbane;
- tutelare il paesaggio e i suoi tratti distintivi;
- ridistribuire le funzioni strategiche, creando nuove centralità urbane/metropolitane;
- migliorare al qualità degli insediamenti;
- razionalizzare la distribuzione delle aree per attività produttive;
- sostenere la formazione di piani per lo sviluppo sostenibile nei diversi contesti locali.

Il PTC deve necessariamente fornire ai PRG comunali indicazioni di riferimento per coordinare le “interrelazioni territoriali” di area vasta. Per quanto riguarda le “interrelazioni urbanistiche” sovracomunali, il PTC della Provincia di Torino individua 22 aree di aggregazione sovracomunale (tra cui la conurbazione metropolitana, con 30 comuni). Di fatto, l’efficacia del PTC torinese è ridotta a causa sia della tardiva approvazione in Regione sia del difficoltoso coordinamento con il Comune di Torino (specie sul terreno della pianificazione urbanistica comunale); non a caso, la Provincia ha avviato alcuni approfondimenti, per tenere conto delle modificazioni intervenute tra adozione e approvazione del PTC e per promuovere ipotesi di coordinamento urbanistico ad una scala sovracomunale.