La nuova architettura torinese è di qualità?

Nel corso del 2003 ha cominciato a prendere corpo anche il dibattito sulla qualità delle trasformazioni in corso, anche per effetto di ripetute prese di posizione critiche pubblicate dai giornali cittadini. Qualcuno, insomma, ha buttato il sasso nello stagno, stigmatizzando come a Torino si rischi di sprecare un’occasione forse unica, poiché ben difficilmente, nel prossimo futuro, potrà ripetersi una tale coincidenza di eventi capaci di attirare investimenti e, quindi, di trasformare così in profondità il tessuto urbano.
Nella partita che si sta giocando attorno alla Torino del futuro, diversi critici osservano che alcuni processi decisionali non paiono all’altezza ma, soprattutto, numerosi progetti rischiano di non sollevarsi dalla zona grigia della mediocrità (nella migliore delle ipotesi). Comincia a farsi consistente, insomma, il timore che, se la proverbiale organizzazione dei Torinesi saprà garantire il puntuale rispetto delle maggiori scadenze prossime venture (prima tra tutte quella olimpica), nonché una formale correttezza e trasparenza dei processi, non è invece affatto scontato che gli esiti di tali processi siano davvero in grado di ridefinire il volto della metropoli come più vivibile, oltre che “appetibile”.
E’ obiettivamente difficile tener dietro alle diverse prese di posizione che si esprimono nel dibattito sulla qualità dell’architettura torinese, anche perché questo finisce sovente per ridursi a sterili polemiche, alimentate da personalissime idiosincrasie, “simpatie” e “antipatie” per soluzioni e stili architettonici (ma, talvolta, per singoli progettisti). In questi mesi, tuttavia, i termini essenziali della questione paiono emersi con una certa chiarezza: discutendo di “qualità dell’architettura”, si allude – di fatto – a due ben distinte questioni (ancorché spesso poi intrecciate tra loro): da un lato, quella della qualità estetica di un progetto, del manufatto architettonico in sé; dall’altro, quella della sua contestualizzazione, cioè del modo con cui un nuovo edificio si va a collocare nel tessuto urbano preesistente.
Delle due, la prima questione è senz’altro quella che ha finora maggiormente appassionato il dibattito, forse perché più facilmente amplificabile dalla cassa di risonanza dei media locali. Attorno a recenti interventi già completati (come il Palagiustizia, piazza Castello, la sistemazione di corso Mediterraneo) o in corso di realizzazione (Palahockey, Palavela, grattacielo della Regione), ma anche attorno ad edifici ormai “storici” (come il palazzo di Passanti in piazza S.Giovanni) è cresciuto un dibattito molto acceso, ma sempre più pericolosamente connotato da estemporanei “Mi piace” / “Non mi piace”: basta rileggersi gli interventi pubblicati nel 2003, per rendersi conto, appunto, degli abbondanti richiami, a “edifici belli”, “scelte estetiche di pregio”, “luoghi belli”; o, piuttosto, “brutte case”, “costruzioni indegne”, “sciatteria compositiva”.
Se è evidentemente scontato che ogni opinione ha (democraticamente) diritto di cittadinanza, risulta invece inquietante che in questo dibattito si insista quasi soltanto sulla dimensione estetica dei progetti e degli edifici. Il rischio, infatti, è quello di arenarsi nelle secche di un assoluto relativismo (“De gustibus…”), senza trovare la minima base comune di confronto (necessaria ad evitare sterili botta e risposta).
Pare condivisibile quanto rimarcato da uno degli intervistati della nostra indagine, e cioè che uno può mettersi o no un certo maglione (è solo una questione di preferenza soggettiva), mentre un edificio è e rimane un fatto pubblico. Solo che sui caratteri estetici e compositivi degli edifici, così come sul disegno degli spazi pubblici urbani, non sempre è molto più semplice che sui maglioni individuare riferimenti e parametri valutativi “oggettivi” (e quindi condivisi e stabili), nemmeno nella ristretta cerchia di esperti e addetti ai lavori.
Nella ricerca di qualche “appiglio” di oggettività, da più parti ci si richiama spesso ad alcuni tra i più noti indici internazionali sull’architettura. Da una nostra piccola indagine su uno dei più noti ed autorevoli, l’Avery Index (curato dalla Columbia University, recensendo 15.000 citazioni annue su 800 riviste architettoniche di 40 paesi), Torino risulta più o meno a metà della graduatoria (per numero di citazioni delle architetture) tra una ventina di metropoli europee gerarchicamente simili, posizionata grosso modo al livello di Manchester, Stoccarda, Amburgo e Ginevra; tra le italiane, segue a distanza Milano e Napoli, ma precede Genova e Bologna.
Per quanto riguarda Torino, i titoli degli articoli citati dall’Avery Index sono i seguenti:
&Mac183; Architettura moderna e contemporanea: Andrea Bruno presso Torino; Architetto Enzo Zacchiroli: nuovo palazzo di giustizia, Torino; Camagna, Camoletto, Marcante a Torino: organizzazione spaziale, tracce di vita; Dipartimento di progettazione architettonica Politecnico di Torino: ricerche e sperimentazioni progettuali per un'architettura dei luoghi nella 'periferia'; Case di libri; Levi Montalcini e Torino; Gabetti & Isola: museo d'antichità a Torino; Hiroshi Hara: new Palace of the Region in Torino; Mario Bellini per Torino; Palazzo di giustizia a Torino; Pietro Derossi: complesso residenziale in corso Francia, Torino; Sede della Camera di Commercio per l'Estero, ampliamento.
&Mac183; Edifici storici: Il monumento funerario di Cassiano dal Pozzo senior nella chiesa di Sant'Agostino a Torino; Nuove scoperte per l'arredo della chiesa di San Filippo a Torino.
&Mac183; Manifestazioni / eventi: Luci d'artista a Torino (1999); Progettare l'accoglienza: a Torino l'Ostensione della Sindone; Eduardo Torroja, l'eredità culturale: una mostra e un seminario a Torino.
Area metropolitana: Il restauro della Manica Lunga del castello di Rivoli; Manica lunga - det lange aerme: Castello Rivoli, Torino, Italien; Riuso di un sito industriale a Chieri, Torino; Architetto Vincenzo Bossuto: una casa, Cumiana; Passarella di Rivarolo Canavese (Torino).


 
 



Questa (pur molto sommaria) indagine conferma quanto spesso si sente dire e cioè che, pur senza demeritare in modo particolare, l’architettura torinese non brilla comunque certo nel panorama della pubblicistica internazionale. Ad osservazioni del genere è frequente che venga replicato “Date tempo ai grandi architetti che stanno lavorando a Torino…”; non a caso, in ogni pubblicazione istituzionale sulle trasformazioni urbane, non mancano mai abbondanti citazioni dei progetti dei vari Isozaki, Botta, Aulenti, Fuksas, ecc..
Tuttavia, a proposito di questa strategia delle “grandi firme” – tenacemente perseguita negli ultimi anni a Torino – non sono poche le perplessità espresse da parecchi addetti ai lavori, i quali temono, in particolare, che il ricorso ai grandi architetti di fama internazionale possa diventare una sorta di alibi per “mascherare” la bassa qualità media di tutti gli altri progetti in corso di realizzazione.

I grandi nomi, di per sé, non garantiscono qualità: se no succede come nella Postdammer Platz di Berlino, dove oggi c’è un “puzzle” di capolavori, ma senza aver creato un vero ambiente.

Le grandi firme non sono una garanzia, anche perché spesso si creano strane “alleanze” con alcune élites progettuali locali (di non eccelsa qualità): i grandi nomi mettono essenzialmente a disposizione il loro curriculum, ma… non sanno nemmeno dov’è Torino !

Non è sempre detto che le cosiddette “star” siano sinonimo di qualità e risolvano la situazione. Spesso poi, per come sono organizzati da noi i concorsi e le gare, i loro nomi vengono forzosamente inseriti in grandi raggruppamenti che mettono insieme di tutto.

Lo stesso punto di vista, d’altronde, è espresso anche nelle Linee guida (predisposte da Politecnico e Torino Internazionale, e recentemente approvate dal Comune) per la Strategia di immagine urbana per l’area metropolitana: “La città è un fenomeno complesso e pertanto non può essere né analizzata, né riprogettata e valorizzata con interventi di "collage" soltanto architettonici o artistici, per quanto qualificanti o di richiamo. L’attenzione su questi aspetti – per evitare che tali interventi risultino "galleggiare" nella città – deve riferirsi al fenomeno città nel suo complesso e deve essere ricondotta a "sistemi"”.
Il rischio, inoltre, come sottolineato da molti, è che questa “ideologia della griffe” finisca per penalizzare, in particolare, i giovani architetti emergenti dell’area torinese (anche perché si fanno ancora pochi concorsi). Ciò, tra l’altro, non permetterebbe a Torino di ripercorrere le orme di Barcellona, la quale riuscì invece a sfruttare la chance olimpica anche per lanciare una nuova generazione di promettenti architetti (che, in pochi anni, hanno acquisito una fama internazionale), con benefici effetti che perdurano per la capitale catalana.

Bisognerebbe far crescere una generazione di giovani architetti, come fecero a Barcellona. A Torino ci sono almeno una decina di gruppi di giovani architetti che hanno già un certo rilievo e notoretà all’estero (anche se sono certamente meno di quelli presenti oggi, ad esempio, a Milano); il rischio però è che questi architetti torinesi diventino gli ennesimi transfughi…

Finora non si è fatto nulla per i giovani architetti. Ma il nostro futuro è lì, non nelle società di architettura, che non fanno architettura ma comprano solo le grandi firme (come una griffe su una giacca anonima), le quali ripetono sempre se stesse per riaffermare il proprio stile.

Si fanno ancora troppo pochi concorsi (perché sono complessi, costosi, lunghi). Ma, ad esempio, tutta la nuova generazione degli architetti francesi degli anni ’90 è emersa proprio grazie a operazioni di grandi concorsi (tipo “Banlieue ’89”).

La collaborazione tra architetti di fama e giovani architetti sarebbe la scelta migliore. I giovani architetti di solito sono stritolati all’interno del processo decisionale perché mancano di autorevolezza ma anche di capacità progettuale (dall’avere buone idee a fare un progetto, se non inattaccabile quanto meno autorevole, ne passa…).

Se c’è una politica importante per promuovere la qualità del progetto, questa è la politica dei concorsi: sono l’unico strumento in grado di garantire una concorrenza reale, fondata sulla qualità del prodotto a vantaggio del committente, dell'utente finale e dell'intera comunità, che ha il diritto di esigere un ambiente urbano funzionale, durevole ma soprattutto vivibile.

L’altra grande questione che anima il dibattito attuale sulla qualità dell’architettura torinese, come detto, ha a che fare con il grado di integrazione urbana dei diversi progetti, ossia con la capacità dei nuovi edifici di inserirsi coerentemente nel tessuto urbano, innovandolo senza snaturarlo; da più parti si evoca, in proposito, la necessità di una progettazione non esibizionistica, in grado di “creare un ambiente”, inserendo pochi elementi monumentali in un contesto edilizio coerente (legato, ad esempio, all’omogeneità dei materiali, dei colori, dei volumi). Ma la questione si pone anche nei termini di saper gestire coerentemente una progettazione complessa, che non si esaurisce nei soli elementi architettonici, comprendendo anche, ad esempio, la dotazione di servizi o gli spazi circostanti.
Anche da questo punto di vista, diversi esperti sono piuttosto critici rispetto a talune modalità di gestione dell’integrazione del progetto nel tessuto urbano, spesso connotata da scarsa professionalità, ma talvolta da deficit decisionali, organizzativi e tecnici interni agli apparati amministrativi.

La vera scommessa della qualità oggi sta nel fare progetti realmente integrati (e non solo sulla carta): ma spesso, a ogni tornata, se ne elimina un pezzo: il verde, poi i trasporti pubblici, ecc. Questo dipende da un insieme di fattori: autonomie e tempi decisionali diversi, la tradizionale “separatezza” della pubblica amministrazione (che – non solo a Torino – lavora per settori e non per progetti o per aree), la posizione dominante della cultura ingegneristica (avvezza al problem solving, più che al problem setting), formatasi sull’asse fordista Fiat-Politecnico.

La qualità di un progetto sta nella sua coerenza complessiva: molte cose che si vedono oggi sono semplicemente l’assemblaggio di parti di progetti visti altrove, oltre che di materiali correnti (come i serramenti di metallo nero verniciato, che ormai dilagano), ma l’architetto non deve accontentarsi di ciò che passa l’impresa.

Torino ha una certa difficoltà a gestire decisioni progettuali complicate e processi complessi che prevedano diversi livelli (tecnici e politici), coinvolgendo grandi attori, muovendosi su scale diverse. Ad esempio, nel passaggio dal livello politico a quello tecnico c’è ogni volta una caduta del progetto, una sua banalizzazione / semplificazione.

Il progettista si dovrebbe trovare di fronte ad una committenza in grado di spiegare bene quali sono gli obiettivi del progetto; ma molto spesso ci si trova di fronte a committenti che non sanno dare obiettivi precisi al progettista; così il progettista (che così finisce per definire lui gli obiettivi); perciò è poi molto difficile una valutazione del progetto.

Credo che a Torino sia mancata una cabina di regia per gestire la trasformazione della città e la comunicazione ai cittadini, una sorta di coordinamento tra i vari assessorati, per arrivare a una “vision” condivisa.


A livello teorico, la quasi totalità dei protagonisti delle scelte urbanistiche e architettoniche di questi anni dichiara di condividere la logica per cui un progetto è buono solo se riesce ad inserirsi opportunamente nel contesto urbano. Quando però si passa ad esaminare i concreti progetti, quasi sempre le opinioni divergono nettamente, citando lo stesso intervento come esempio ora virtuoso ora perverso.
Per cercare di dare maggior “spessore” all’attuale dibattito sulla qualità dell'architettura torinese abbiamo provato a realizzare un’indagine ad hoc, chiedendo agli esperti (già citati nei precedenti paragrafi) le loro opinioni sulla qualità dell’architettura, non però di interventi molto noti e dibattuti, per evitare pareri scontati, ma soprattutto perché ci pare condivisibile l’idea (già citata) per cui la qualità di un tessuto urbano dipende dal suo livello medio diffuso. Per questo, abbiamo selezionato una “rosa” di 8 progetti, differenti per funzioni e collocazione territoriale: la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, il nuovo palazzo uffici della Telecom (in via Cavalli), il centro commerciale su via Livorno, la nuova sede delle facoltà scientifiche a Grugliasco, la tettoia del mercato di piazza Crispi, il giardino Caduti di Cefalonia (sulla Spina, tra corso Ferrucci e corso Mediterraneo), oltre a due edifici per abitazioni (in corso Ferrucci e in via Lancia).
Rispetto a ciascuno di questi luoghi, abbiamo chiesto ai testimoni qualificati di esprimere le loro valutazioni, da un lato sulla qualità del manufatto in sé (“Da un punto di vista strettamente estetico, lo ritiene un bel progetto?”), dall’altro sul suo grado di integrazione (“Ritiene che questo progetto sia ben risolto, ovvero sia ben inserito nel tessuto urbano ?”).
Agli intervistati sono state mostrate per ciascuna realizzazione due diverse fotografie: una più di dettaglio ed una più grandangolata (in modo da cogliere meglio le connessioni col tessuto circostante). Per ciascun progetto, è stato chiesto agli intervistati di esprimere valutazioni discorsive ed ampie (sia sulla qualità estetica sia sull’inserimento), per poi riportarle sinteticamente su scale graduate (o feeling thermometers); gli esiti di tale sintesi, sono qui riportati in forma sintetica nei due grafici.
Rispetto alla qualità estetica dei singoli progetti, i pareri favorevoli sono stati raccolti a proposito della Fondazione Sandretto: anche per quanto riguarda l’inserimento nel tessuto urbano (che, in fase di costruzione, aveva suscitato molte polemiche tra i residenti), questo edificio è stato citato come l’esempio migliore tra gli 8 casi analizzati.
Ma opinioni tendenzialmente positive sono state espresse anche sul centro commerciale di via Livorno e (un po’ meno) sul giardino Caduti di Cefalonia. Per quanto riguarda il nuovo centro commerciale, i pareri favorevoli si sono soffermati, in particolare, sulla vivibilità dei suoi spazi (sopratutto interni), specie per confronto con lo scarso livello qualitativo medio della maggioranza dei centri commerciali; decisamente più polarizzati, invece, i giudizi sul suo inserimento: c’è chi lo ritiene ottimo (avendo ricostruito un tessuto) e chi, invece, pessimo (per l’indifferenza rispetto al contesto). Nel caso del giardino Caduti di Cefalonia, gli elementi caratterizzanti (la diagonale, il “tunnel” verde) suscita reazioni decisamente contrastanti: c’è chi li apprezza, ma anche chi, al contrario, ritiene questo giardino uno spazio non risolto, ben poco accogliente; e, infatti, poco frequentato.
I progetti che, in assoluto, sono stati giudicati più criticamente sono quello i condomini tra corso Ferrucci e via Borsellino, anche perché edificati in un’area che si vorrebbe tra le più prestigiose di Torino: di questi edifici è stata sottolineata, in particolare, l’eccessiva volumetria, l’estrema povertà stilistica del progetto architettonico, ma anche le scelte urbanistiche a monte (che hanno concentrato qui una cubatura da molti ritenuta eccessiva.
Valutazioni tendenzialmente negative sono poi state espresse anche su altri progetti, come ad esempio l’edificio d’abitazione in via Lancia o la sede dell’università a Grugliasco, mentre è connotato da una valutazione di (letterale) mediocrità l’edificio per uffici Telecom in via Cavalli, di cui è stato ripetutamente criticato lo stile decisamente anonimo; la tettoia del mercato di piazza Crispi, invece, tra alti e bassi, ha comunque suscitato qualche emozione in più tra i nostri interlocutori, benché sia stata ripetutamente criticata soprattutto per la scarsa attenzione al suo inserimento nel contesto, perdendo così un’occasione importante per riprogettare l’intera piazza.